di Paolo Raimondo Dirigente Medico P.S. , OBI e Astanteria A.O.Rn Santobono Pausilipon – Napoli
Io detesto i botti di Capodanno.
Tra i buoni propositi per il 2018 c’è quello non vedere nemmeno un bambino la notte del 31. Nemmeno uno. Non ne posso più di curare bambini vittime del folle gioco dei botti di Capodanno. Sono a lavoro, nel Pronto Soccorso di un grande ospedale, da appena un’ora e tutto intorno è silenzio mentre la città, la mia Napoli, ancora dorme, aspettando di salutare il nuovo anno. Oggi non è un giorno qualunque, ma è il primo giorno del calendario, quello in cui tutti cerchiamo di lasciarci alle spalle le delusioni, le frustrazioni, le quotidiane difficoltà della vita. Quello in cui sorridiamo, sogniamo, crediamo che sarà tutto più semplice, più bello e forse più giusto. Non faccio in tempo a perdermi in questi pensieri che la realtà mi sfida, e lo fa per tre volte di fila, come in una partita di tennis.
La storia di Luca
L’ambulanza del 118, annunciata dalla sua inconfondibile sirena, si ferma davanti all’ingresso. Velocemente i colleghi fanno scendere la barella, continuando a dire al piccolo Luca di stare tranquillo, perché adesso era arrivato dove altri dottori lo avrebbero aiutato a stare bene, mentre io, che ero “gli altri dottori”, cominciavo a realizzare che avrei tradito quella speranza. Luca è un bellissimo bambino di otto anni con due enormi occhi neri. Al suo fianco la madre continua a ripetere che era sceso nel vialetto solo per un attimo, solo per un attimo, col suo nuovo cagnolino avuto per Natale. Solo un attimo, quel botto, quel pianto disperato, la corsa, il sangue. Il mio sguardo ritorna su Luca, sulla sua mano sinistra stretta forte a quella di mamma e sull’altra, quella che vorrei tanto vedere e stringere anch’io, ma che mi appare nella sua amara forma, quella di uno strato di garze punteggiate di sangue a proteggere quello che non si può più proteggere, a salvare quello che non si può più salvare, che semplicemente non esiste più. Così, mentre tutto quello che prevedono le linee guida viene prontamente eseguito come spartito da un’orchestra collaudata, io rimango accanto al piccolo Luca e alla madre, ad accarezzare la sua fronte, a parlare con lui, mentre la tensione sembra smorzarsi per fare posto alla più lucida consapevolezza che mai avrei immaginato negli occhi di un bambino. Occhi che mi dicono che la sua vita è cambiata per sempre, occhi che mi parlano di tristezza, occhi che mi fanno assaporare l’amaro della solitudine di chi è diverso, di chi sarà per sempre “qualcosa in meno” degli altri.
La storia di Marta
Passano pochi minuti e quella scena si ripete. La stessa sirena, gli stessi enormi occhi bagnati dalle lacrime, quelli di Marta. Solo uno cerca conforto nel sorriso forzato del padre che le ricorda della loro bellissima gita allo zoo, mentre l’altro si nasconde dietro una grossa benda, anche questa volta tinta di rosso, come un implacabile sipario calato su un palcoscenico che non sarà più calcato. Ancora una volta ascolto il racconto di un solo istante, eterno e immutabile, quello in cui la piccola Marta, con la curiosità dei suoi tre anni, si avvicina per capire cosa fosse quella specie di grossa matita colorata lasciata per strada. Poi il rumore, il fumo, l’odore pungente, il tempo che non può tornare indietro e la paura che ti entra nelle ossa. Allora non trovo di meglio che dire a quella bellissima bambina che anche io avevo visitato quello zoo. Così, mentre le strappo un meraviglioso sorriso ricordandole quanto fossero buffe le scimmiette, la vedo scomparire dietro le porte di un ascensore, certo che avrebbe fatto tutti i controlli del caso, nessuno escluso. Purtroppo certo che oggi non sarebbe avvenuto nessun miracolo, che il mondo di Marta sarebbe diventato per sempre diverso.
La storia di Claudio
Il mio turno non è ancora finito, la mia partita non è ancora conclusa. Ecco Claudio, accompagnato dai suoi genitori, che lo reggono mentre a fatica scende dalla macchina, sbandando come un ubriaco e proteggendosi l’orecchio con un fazzoletto. Claudio è un ragazzotto di tredici anni, quasi più alto di me. Mi racconta che la sera prima, nel suo primo veglione da “grande”, a casa di amici, volevano solo divertirsi a far scoppiare sul terrazzo tutti quei botti che Marco, l’amico di sempre, aveva comprato per strada. È confuso, ha paura del rimprovero di mamma e papà, che invece sono lì a sostenerlo come hanno fatto tante volte nei suoi primi passi. Ora racconta e me di quel momento, quel botto che è scoppiato quando non doveva, quel dolore come una pugnalata, quel fischio che non finiva mai, le voci dei suoi amici che cambiavano tono e direzione, quella paura di cadere che ancora non lo aveva abbandonato. Per poi piangere come forse non faceva da tanto tempo. Asciugo quelle lacrime, scherzo con lui per il suo improbabile ciuffo e finiamo per parlare di calcio, mentre cerco di dosare ogni parola per adattarmi al suo nuovo modo di sentire. Anche Claudio inizia il suo viaggio, con me ad accompagnarlo, verso nuovi limiti e una diversità che forse imparerà ad accettare, che di certo sarà ormai parte di lui.
I fuochi e la luce più bella del 2018
Rimango ancora in quel pronto soccorso, mentre ormai la città, la mia Napoli, è tutta sveglia, e mi ritrovo a pensare al fatto che la mia giornata era cominciata con dei buoni propositi. Nessun botto fa più rumore di un cuoricino che batte di gioia, perché non esistono fuochi che facciano più luce degli occhi di un bambino che apre il suo regalo. Il mio, e spero sia anche il vostro, buon proposito per l’anno che verrà è quello di vedere ogni Luca stringere il suo libro di racconti tra le mani, ogni Marta riflettere nei suoi occhi le luci dell’albero che riempie la piazza del paese, ogni Claudio ascoltare divertito i suoi amici cantare. Il turno è finito, saluto i miei colleghi, i miei amici, auguro a tutti un buon anno, e che gli unici botti del prossimo Capodanno siano quelli delle bottiglie di spumante, rigorosamente italiano.